Alcune riflessioni di ritorno dal nostro viaggio in Israele-Palestina, di Susanna Sinigaglia (associazione Ebrei contro l’occupazione)
Viaggio in Israele – agosto 2016
Il mio viaggio si è svolto in 4 tappe, in parte da sola e in parte con Casa per la pace. Sono stata a Maabarot e Haogen, i kibbutz dove vive un ramo della mia famiglia, approfittandone per una breve visita a Netanya, la città più vicina; poi a Gerusalemme (più Tel Aviv e Jaffa, ma con base sempre a Gerusalemme); quindi a Nablus, con sosta a Ramallah e visita a Jenin; infine, ritorno in kibbutz e gita a Haifa.
Inevitabile è stato il confronto con il viaggio precedente, quello dell’agosto 2005 insieme a Luisa Morgantini e le Donne in nero. Allora si era in pieno ritiro da Gaza: le strade pullulavano di soldati armati e posti di blocco, tanto che un giorno avevamo dovuto rinunciare a raggiungere Jenin perché il nostro pullman era rimasto bloccato per più di 4 ore a un checkpoint. Stavolta niente di tutto questo.
1. I kibbutz
Già nel 2005 mi era stato detto che mentre Maabarot è più ricco e conserva ancora strutture comunitarie come la mensa, a Haogen tutto ciò è un ricordo lontano. In realtà, la struttura comunitaria di Haogen è stata progressivamente smantellata a partire dagli anni ’80 con i governi del Likud, ma nemmeno quelli del Labour hanno più investito in questa direzione. Maabarot è più fortunato in quanto i suoi abitanti sono piuttosto benestanti e, immagino, possano investire nel kibbutz mezzi di tasca propria (che non sarebbe propriamente nello spirito del social-comunismo). Ora a Haogen, gli edifici collettivi in disuso stanno andando in rovina perché il governo, per l’acquisto degli immobili e dei terreni su cui sorgono, pone condizioni economiche insormontabili. Così da una parte si procede con la costruzione di abitazioni per israeliani ebrei nelle terre palestinesi e dall’altra si lascia andare in malora l’esistente dove politicamente non serve. Infatti Haogen era uno dei kibbutz più di sinistra, aveva un regime comunitario molto rigoroso, forse fin troppo, e accoglieva i lavoratori palestinesi (tuttora se ne vedono, per esempio nella piccola casa di riposo che però si sta spopolando anch’essa). A proposito degli edifici in disuso e in relazione al regime di proprietà della terra vigente in Israele – oggetto del saggio molto illuminante di Sandy Kedar e Oren Yiftachel, Il regime di gestione della terra e le relazioni sociali in Israele –, proprio ascoltando questa vicenda mi è venuta l’idea di sondare la possibilità di proporre un obiettivo comune non solo a mizrachi e palestinesi (impresa ardua e tuttavia già sperimentata in passato) ma anche a quegli israeliani ashkenaziti, o comunque di origine europea, che ora subiscono – per ragioni di varia natura – gli effetti negativi delle leggi israeliane sulla terra e conseguente distribuzione delle risorse in genere.
Parlando con alcuni abitanti dei kibbutz (fra cui i miei parenti e una giovane di origine tunisina), ho però constatato come l’ostilità verso i mizrachi sia ancora ben presente e anche loro facciano ricorso ai soliti stereotipi: i mizrachi si lamentano invece di rimboccarsi le maniche, si atteggiano a vittime ecc. Pur ammettendo l’esistenza di comportamenti discriminatori nei confronti degli ebrei provenienti dai paesi arabi durante i primi anni che ne hanno seguito l’arrivo, si tende comunque a pensare che i mizrachi si avvalgano di alibi fondati su storie del passato per giustificare la loro “inadeguatezza” presente… non si riconosce che la questione è strutturale. La giovane tunisina ha completamente assunto tali stereotipi; anzi, naturalmente, è “più realista del re”.
Netanya. La città ospita una folta comunità di ebrei francesi arrivati in Israele dopo le più o meno recenti, esageratamente enfatizzate, manifestazioni di ostilità antiebraiche in Francia. Il loro arrivo ha provocato un’ulteriore lievitazione del prezzo dei terreni e delle case, che in qualche caso supera i livelli di quello delle grandi città italiane mentre lo shekel vale un quarto dell’euro. Netanya si rivela piuttosto caotica e bruttina, con uno stradone – il principale, come fosse un nostro “corso” ma che qui assomiglia di più all’idea che mi sono fatta delle “main street” – pieno di negozietti che si susseguono l’uno accanto all’altro senza soluzione di continuità zeppi di cianfrusaglie “alla cinese”, e bar all’aperto affollati di gente seduta ai tavoli – in una calura soffocante – che mangia e beve di tutto a qualsiasi ora. Alla fine di quest’ameno stradone si raggiunge finalmente un po’ d’ombra e vento dove inizia la passeggiata sul mare, che si snoda in posizione elevata perché sul mare di Netanya si erge un lungo dirupo. La passeggiata che sovrasta il mare è a sua volta sovrastata da grandi palazzi, dove probabilmente vivono i suddetti francesi guastafeste.
A questo punto, mi sembra che non ci sia più niente d’interessante da vedere e decido che posso tornarmene al kibbutz.
2. Gerusalemme e West Bank
Controllo territoriale e controllo tecnologico. A Gerusalemme, nella città vecchia, ho visto solo un piccolo drappello di soldati all’entrata della porta di Damasco, non per le strade; d’altro canto, ho notato un forte restringimento del quartiere arabo a vantaggio di quello ebraico contiguo. Sugli autobus, pur essendoci qualche soldato con il solito fucilone che ti sventola sotto il naso, la presenza dei militari è tuttavia sporadica; al checkpoint fra Ramallah e Gerusalemme, i due soldati che sono saliti sul bus per il solito controllo avevano l’aria annoiata di chi ne ha fin sopra i capelli e quello che mi ha chiesto i documenti non si è curato di farlo a una famigliola composta da coniugi e due bambinetti che sedevano dietro di me. Forse, come si vociferava, questo allentamento della pressione militare diretta era dovuto alla presenza dei turisti particolarmente numerosi nel mese di agosto e Israele, soprattutto per contrastare il BDS, sta cercando di dare di sé un’immagine più accattivante. È però anche probabile che sia stato messo a punto un sistema di vigilanza tecnologica del territorio e delle persone molto più efficiente, come quello dei turisti in entrata e uscita attraverso gli strumenti elettronici nella serie infinita di passaggi imposti all’aeroporto. Comunque e in compenso, sono aumentati i raid notturni nelle case palestinesi e il sequestro di giovani e giovanissimi. Proprio durante il viaggio, abbiamo saputo che la Knesset ha autorizzato l’arresto di ragazzini di 12 anni! Inoltre, l’esproprio di case e territorio è continuo e crescente ma soprattutto, l’occupazione è entrata a far parte della quotidianità.
A tale proposito, posso segnalare la mia esperienza del viaggio di ritorno da Nablus a Maabarot. La mattina in cui stavo per tornare dai miei parenti, il gruppo di Casa per la pace doveva andare in visita a Tulkarem, un paese che dista da Maabarot circa dieci chilometri in linea d’aria. Tuttavia non è possibile andare a Tulkarem e da qui raggiungere il kibbutz, la strada non c’è. Così mi sono dovuta rassegnare a prendere l’autobus Nablus-Ramallah e, dopo nemmeno dieci minuti di percorso, ho visto sulla mia destra il cartello che indicava lo svincolo per Tulkarem. Il mio viaggio è proseguito: arrivo a Ramallah, cambio bus per Gerusalemme; a Gerusalemme raggiungo la stazione delle corriere con la metro-tranvia e prendo l’autobus per Tel Aviv; a Tel Aviv finalmente salgo sull‘autobus che mi porterà fino a Maabarot. Sono partita da Nablus alle nove e mezzo del mattino, arrivo in prossimità del kibbutz verso le quattro del pomeriggio. Mentre il mezzo percorre gli ultimi due o tre chilometri che lo separano dalla mia meta, cosa ti vedo alla mia destra? Un cartello segnaletico che indica la strada per Tulkarem! Significa che ho impiegato oltre sei ore e mezzo per tornare più o meno allo stesso punto, solo dalla parte opposta. E pensare che non ho neppure mai incontrato posti di blocco…
Controllo della vita materiale e della mente: ideologia ed economia dell’occupazione. Rispetto al viaggio del 2005, stavolta mi è sembrato molto più impressionante il controllo del pensiero e dell’informazione attraverso l’ideologia, il racconto sionista della storia e la sostituzione di segni della presenza palestinese con simboli della conquista sionista.
Significativa è la vicenda di Jaffa, uno dei più importanti centri commerciali e portuali palestinesi, e di Tel Aviv che, da piccolo agglomerato abitativo-appendice di Jaffa, negli anni e con la vittoria israeliana del ’48 si è sostituita alla città palestinese relegandola nella marginalità economica e sociale odierna. A Jaffa Omar, dell’associazione Zochrot, ci ha mostrato i luoghi simbolo di questo ribaltamento e cancellazione-sostituzione di segni. Mi è così tornato in mente il film Jaffa, la meccanica dell’arancia di Eyal Sivan, in cui si narra di come gli israeliani si siano appropriati del marchio “Jaffa” caratteristico della produzione di agrumi e noto in tutto il mondo. Ma la percezione fortissima di quanto sia forte l’ideologia sionista con la sua narrazione la si ha visitando i vari musei che costellano le colline intorno a Gerusalemme.
Museo del sionismo. Mentre fino a un paio d’anni fa vi si poteva accedere liberamente dopo il regolare pagamento del biglietto d’ingresso, ora non è più possibile; la visita è obbligatoriamente “guidata”, si entra per gruppi e se le guide sono già impegnate, bisogna aspettare il proprio turno, ovvero finché non se ne libera qualcuna. Il nostro gruppo era arrivato verso le 11,30 e avremmo dovuto aspettare fino alle 14! Così, abbiamo rinunciato.
Yad Vashem. La prima parte del percorso è storica, costituita da una ricostruzione piuttosto ben fatta degli eventi che hanno preceduto la Seconda guerra mondiale e che hanno portato alla Shoà nonché allo sterminio delle varie popolazioni target del regime di Hitler. Tutta la parte centrale mostra invece le varie fasi e circostanze in cui gli ebrei sono stati perseguitati e uccisi dai nazisti tedeschi e i loro complici italiani, polacchi, ungheresi… questa parte è difficilmente percorribile per intero e per quanto mi riguarda, ho scelto d’interrompere la visita e uscire. E proprio all’uscita avviene il passaggio “psicofisico”, come ci ha fatto ben osservare più tardi Yahav, la nostra guida di Gerusalemme. Si esce infatti da una porta a vetri accedendo a una balconata che si apre sul paesaggio collinare che circonda la città: un ampio spazio verde dove troneggia la luce azzurra del cielo. Come dire: sei uscito dall’inferno della diaspora e hai raggiunto la terra del latte e del miele, dove sei in salvo e in pace (!!??). Lasciandosi Yad Vashem alle spalle, si attraversa la strada e si sale sulla collina dedicata a Theodor Herzl – fra alberi di pino e cedro – sulla cima della quale si trovano le tombe dei vari leader israeliani passati alla storia e una grande spianata con il monumento all’”indipendenza”, sempre su uno sfondo di colline verdeggianti dove continua il messaggio: ora sei nella tua terra, immerso nella quiete degli alberi e dei prati. Peccato che manchi l’accompagnamento musicale…
3. In Israele
Anche l’isolamento e la frammentazione sociale sono palpabili, in modi comunque molto diversi nelle due società. In Israele hanno forme a volte simili a quelle che si possono riscontrare dalle nostre parti – fatte di povertà-emarginazione da un lato (a Gerusalemme Ovest e Tel Aviv si vedono molti mendicanti e senza tetto) e individualismo-arrivismo dall’altro – a volte dissimili, fatte di rivalità fra gruppi non tanto per schieramento politico, quanto sociale-culturale (chiamato ormai “etnico”), come accennato sopra, o religioso; dove tuttavia il collante che straordinariamente tiene tutto insieme è, occorre ribadirlo, l’ideologia sionista, la sua narrazione, potente perché sostenuta da un’ampia varietà di mezzi che agiscono sia a livello palese sia, soprattutto, inconscio.
Il caso di Yiechiel Mann. È uno degli autori scelti per la raccolta Ebrei arabi: terzo incomodo?. Quando era ancora liceale, Yiechiel aveva seguito i lavori della commissione governativa istituita nel 1995 che avrebbe dovuto ascoltare i testimoni sulla vicenda dei rapimenti di neonati, soprattutto yemeniti, avvenuti nei campi di transito fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Il giovane aveva raccolto varie testimonianze di familiari che avevano subito il rapimento dei loro bambini e sembrava avere una forte consapevolezza del razzismo che rivelavano tali episodi, nonché del coinvolgimento in questi del governo. Ho incontrato Yiechiel a Haifa dopo il mio ritorno a Maabarot e mi sono resa conto che cerca disperatamente di convincersi che Israele è un luogo paradisiaco di convivenza, in cui tutti possono trovare il proprio posto: ebrei, musulmani, israeliani, palestinesi, drusi, beduini e chi più ne ha più ne metta. Mi è sembrato una persona che cerca di evadere dalla realtà; inoltre, ho constatato che le nostre fonti e riferimenti sono incompatibili. Tuttavia, mi chiedo se non valga la pena mantenere il contatto proprio per capire più in profondità come agisca l’ideologia, nella fattispecie sionista, sul pensiero delle persone.
Un altro assaggio di guasti dell’ideologia sionista. A quest’ideologia – soprattutto in Israele – non sfugge quasi nessuno, nemmeno i gruppi o gli individui della sinistra militante e del pensiero radicale, se non altro perché sembra che non credano e non vogliano più nemmeno cercare nuove strade per trovare un qualche percorso unitario verso il superamento dello stato di cose presente. Perciò considerano la rivalità fra ashkenaziti e mizrachi ineluttabile nel migliore dei casi, quando non dovuta alle varie “colpe” dei secondi (leggi vittimismo, come detto sopra, tendenze politiche di estrema destra e odio diffuso verso gli “arabi”, costumi cultural-religiosi). È però probabile che questo atteggiamento nasconda una mancata ammissione di responsabilità verso lo scivolamento sempre più a destra dei mizrachi, di cui peraltro i militanti pro Palestina a vario titolo non si sono mai voluti occupare. Quando alla fine del nostro percorso nella Gerusalemme ebraico-religiosa ho chiesto a Yahav se non pensasse che la lotta per una distribuzione diversa della terra (e quindi delle risorse) non avesse il potenziale di unire le varie popolazioni israeliane e palestinesi che ne beneficerebbero, mi ha risposto che un’alleanza simile “non s’è mai vista nella storia dell’umanità”! Eppure, le rivoluzioni e i cambiamenti avvenuti nella storia sono stati possibili proprio grazie ad alleanze solo fino a poco tempo prima inimmaginabili.
L’incontro a Tel Aviv con Yehouda Shenhav. Yehouda è docente di Sociologia dell’università cittadina e autore di molti saggi sulla società israeliana vista con gli occhi di un ebreo di origine irachena. Purtroppo avrebbe dovuto affrontare un’operazione agli occhi un paio di giorni dopo e aveva potuto confermare la sua disponibilità solo all’ultimo momento. Così il gruppo aveva rinunciato a farne la conoscenza e il piacere è toccato solo a me. Anche lui si è mostrato molto pessimista sulla possibilità di trovare obiettivi che unifichino popolazioni tanto divise e ostili, riconoscendo però che non ci sono molte altre strade da percorrere. E che sia così lo dimostrava nel frattempo, a diversi chilometri di distanza dalla libreria-caffè dove ci trovavamo Yehouda e io, la testimonianza di Judith al gruppo che l’aveva incontrata per un giro in un quartiere di Jaffa abitato da cittadini israeliani poveri – palestinesi ed ebrei – sotto sfratto. Judith ha raccontato che qualche mese prima una donna ebrea si era rivolta alla sua organizzazione per chiedere aiuto e fronteggiare “le forze dell’ordine” che sarebbero venute a obbligare lei e i suoi familiari ad abbandonare il loro appartamento. Così Judith e compagni avevano organizzato la resistenza come è prassi da parecchi anni, chiamando a raccolta gli altri cittadini minacciati di sfratto che, nella fattispecie, erano palestinesi. La donna ebrea, pur dichiarando di votare per la destra, si era allora impegnata, qualora ce ne fosse stato bisogno, a mobilitarsi anche lei in difesa delle case dei palestinesi che le avevano dimostrato tanta solidarietà. Ma questo in realtà non è un caso isolato; diverse sono nel tempo le esperienze di lotte unitarie, come ci raccontano le cronache del Mizrachi Democratic Rainbow (organizzazione mizrachi attiva dalla seconda metà degli anni ’90 fino al 2007, ora “dormiente”) e, fra gli altri, l’avvocatessa – saggista e attivista a sostegno dei diritti civili – Yifat Bitton nel suo La costruzione di un sogno: arabi e mizrachi uniti contro la discriminazione.
4. Nei Territori
Per quanto riguarda i palestinesi, l’isolamento degli individui è percepibile soprattutto fra i negozianti di Gerusalemme, nella città vecchia, ma non solo; anche di Nablus, per esempio. Infatti non si trovano quasi più oggetti d’artigianato palestinese di qualità e accessibili anche a tasche modeste. Ormai la bigiotteria è tutta “made in china” mentre i gioielli, essendo d’oro, sono inabbordabili per i turisti che si recano nella West Bank, in genere quasi esclusivamente militanti o fedeli in pellegrinaggio. Perciò i negozi sono pressoché sempre vuoti. E prevale di conseguenza la cosiddetta economia dell’occupazione che, come ci spiegava Jonatan del Freedom Theatre di Jenin – il fu teatro di Arna Mer Khamis –, è ormai stata in parte interiorizzata insieme ai suoi meccanismi di mercificazione. Sorge perciò il dubbio che anche la nostra presenza (“nostra” in senso lato, ossia di attivisti impegnati nella lotta contro il regime d’occupazione) nei Territori – che dovrebbe tradursi anche in un beneficio economico per i palestinesi – venga metabolizzata e “digerita” dal sistema; un’idea che fa venire la pelle d’oca.
Conseguenza diretta di quanto sopra è la frammentazione politica; sembra che ogni città sia un’isola, una realtà a se stante, e quel che resta della Palestina sia costituito da tante città stato; che i gruppi agiscano nelle varie zone senza coordinarsi con gli altri perché le iniziative (sebbene interessanti e lodevoli) coinvolgono solo la popolazione del luogo, manca una visione complessiva; e che il muro segni una limitazione anche mentale alla propria azione.
Ma non tutto, per fortuna, è segnato da queste terribili difficoltà e abbiamo incontrato alcune esperienze positive: le attività del nuovissimo museo di Ramallah, fondato a maggio, la lotta a sostegno dei prigionieri politici (Nablus) nonché le idee e iniziative del già citato teatro di Jenin, The Freedom Theatre.
Il museo di Ramallah sorge in collina, poco lontano dall’Università di Bir Zeit. Le due giovani guide che ci accolgono (un ragazzo e una ragazza) ci conducono attraverso gli spazi ancora immacolati e vuoti del centro avvolto dalla luce del sole che penetra dalle grandi vetrate.
L’idea chiave del museo non è la conservazione; facendo di necessità virtù, gli ideatori dell’impresa hanno adottato una formula per cui gli oggetti e i documenti raccolti saranno visibili – nel corso delle varie esposizioni – solo “virtualmente” perché conservati in musei sparsi per il mondo e mostrati in collegamento, lontani dal pericolo costituito dal sistema predatorio dell’occupazione, mentre i dibattiti e le iniziative collaterali si svolgeranno nel museo palestinese. Ci è sembrata davvero un’idea geniale, anche per il coinvolgimento ogni volta di attori diversi sulla questione palestinese, nello specifico, e mediorientale in genere.
La lotta a sostegno dei prigionieri politici. A Nablus eravamo ospiti dell’organizzazione Human Supporters, che si occupa principalmente del sostegno ai ragazzi nella loro quotidianità fatta spesso di violenza e trauma. Qui, dopo aver partecipato alla festa cittadina in occasione della fine del laboratorio estivo di arte e creatività a guida italiana che si è svolto nella scuola della cittadina, abbiamo potuto riscontrare quanto sia unificante per la popolazione il sostegno e la solidarietà verso i prigionieri politici, spesso in sciopero della fame. Infatti alla manifestazione che si è svolta in loro appoggio il venerdì pomeriggio durante la nostra permanenza, c’era molta partecipazione. La liberazione dei prigionieri politici è uno degli obiettivi chiave nella lotta contro l’occupazione, perché coinvolge tutta la popolazione palestinese e ha la potenzialità di abbattere le barriere e ricomporre il tessuto sociale.
The Freedom Theatre. Jonathan, il cofondatore del teatro insieme a Julian Mer Khamis – il figlio di Arna, ucciso pochi giorni prima di Vittorio Arrigoni –, ci parla di quanto sia importante il teatro quale strumento per acquisire consapevolezza e spezzare le gabbie, gli schemi mentali. Peccato però che, malgrado parli di rottura degli schemi, nemmeno Jonatan accenni a una possibile alleanza fra popolazioni svantaggiate sia palestinesi sia israeliane, che rappresenterebbe “la madre” di tutte le rotture degli schemi e che il potere ha, perciò, accuratamente sempre evitato o mettendo efficacemente gli uni contro gli altri o nascondendo-manipolando le informazioni che potrebbero mostrarne reciprocamente le reali condizioni.
Conclusioni
Tutti questi elementi sembrano suggerire che l’attenzione vada principalmente rivolta verso il sistema preposto al furto di terre e risorse; una questione che, fra l’altro, si sta imponendo sempre più prepotentemente sulla scena internazionale (vedi il recente convegno a Milano sui migranti ambientali). Tale questione, dalle grandi potenzialità unificanti, richiede però un’articolazione politica specifica nella vicenda israelopalestinese.
I suddetti elementi possono perciò suggerire alcune conclusioni e spunti per eventuali proposte di lavoro, quali:
- lo studio dei meccanismi mentali dell’avversario, non più da demonizzare ma “umanizzare”; ormai sembra evidente che qualsiasi popolazione sottoposta a lavaggio del cervello attraverso il martellamento dell’ideologia può assumere comportamenti criminali, e considerarli legittimi in quanto consentiti dall’autorità vigente; in questo caso oltretutto, si aggiunge il rinforzo aggravante della secolare persecuzione ebraica (in Europa) culminata nella Shoà;
- l’adozione di un approccio alla vicenda Israele-Palestina che la ponga all’interno di uno spaccato geopolitico più vasto (visto oltretutto lo sconvolgimento cui è sottoposta l’area mediorientale) che esigerebbe un’assunzione storica di responsabilità da parte degli attivisti occidentali verso il retaggio lasciato dal colonialismo e dal razzismo che ne è figlio, dagli stereotipi antisemiti usati contro gli ebrei e i meccanismi che li hanno generati nei secoli;
- la creazione di una rete di comunicazione delle esperienze per arricchire e modificare i percorsi e gli interventi; può costituire infatti un punto qualificante di rottura degli schemi, di scardinamento dei meccanismi di replica e inglobamento nel sistema dell’occupazione;
- la costruzione di una narrazione comune in grado di contrastare l’ideologia sionista, che ricorra anche a strumenti diversi da quelli che si usano solitamente nella prassi politica – il volantino, il libello, il saggio – e attinga ai mezzi potenti del linguaggio artistico e teatrale (il cantastorie, per esempio); e non in iniziative isolate, come è successo finora, ma in un disegno coordinato con l’ausilio di testi di riferimento (per esempio quelli di Shlomo Sand – L’invenzione del popolo ebraico –, Ella Shohat, molto sensibile alla questione delle narrazioni, e altri) e di testimonianze-esperienze dirette.