Undici brevi storie di vita quotidiana in Israele-Palestina, che raccontano la terribile ordinarietà del conflitto
UNO. L’asino e il muro
Baqa, Palestina, un giorno come tanti. Mariam, una donna palestinese, è in attesa da ore al check point per raggiungere il campo della propria famiglia che si trova al di la del muro; stanca di attendere, si rivolge al militare israeliano di guardia: «Perché non mi fate passare? Passo di qui ogni giorno, mi conoscete, sono anziana, sono sotto il sole da ore… quando mi farete passare?» Il militare, poco più che adolescente, le risponde indicando un asino che dorme poco lontano dal check point: «Vedi quell’asino che dorme? Ti farò passare quando si sarà svegliato».
Il villaggio di Baqa è stato letteralmente tagliato in due dal muro israeliano. Da un giorno all’altro la città è stata divisa: luoghi che fino a ieri distavano cinque minuti l’uno dall’altro oggi richiedono ore di attesa ai check-point israeliani; per i molti palestinesi ai quali, per diversi motivi, non è concesso il permesso di passare, sono divenuti addirittura irraggiungibili. Molte famiglie si sono ritrovate la casa dal lato palestinese del muro e i propri campi dal lato israeliano. A costoro, per andare a coltivare le proprie terre, viene spesso concesso un solo permesso per famiglia, talvolta ad una donna o a un bambino. E’ per pura sopravvivenza che ogni giorno tanti abitanti di Baqa si sottopongono all’umiliazione del check-point israeliano. Giorno dopo giorno sono sempre le stesse persone, quelle con il permesso, ad attraversare il check-point, eppure i controlli hanno sempre tempi lunghissimi e le attese spesso di prolungano senza motivo.
DUE. Essere giovani a Balata
Percorriamo i vicoli claustrofobici del campo profughi di Batala, nei pressi di Nablus, dove in poco più di due chilometri quadrati vivono circa 23.000 persone. Arriviamo ad una piccola stanza tappezzata di manifesti in cui è ritratto un giovane armato: è Ahmad Sanakra, soprannominato La Fenice. Alcuni ragazzi del campo ci raccontano con orgoglio della sua storia. Ahmad è stato per anni il comandante delle Brigate Martiri di Al-Aqsa del campo profughi, un gruppo armato vicino al partito di Al-Fatah. È stato soprannominato la Fenice per l’incredibile numero di volte in cui è scampato alla morte. Per molti anni è stato inserito nella lista israeliana dei terroristi da eliminare. Nonostante questo Ahmad è scampato ad innumerevoli attentati ed agguati. Come nel 2007 quando, per tre giorni, rimase sepolto sotto le macerie di un edificio palestinese raso al suolo dall’esercito israeliano nel dargli la caccia. Anche quella volta sopravvisse. Non sopravvisse invece ad un’incursione del gennaio 2008, quando l’esercito invase il campo profughi con l’obiettivo di eliminarlo. Quella volta Ahmad la Fenice non riuscì ad evitare la morte. Il 18 gennaio, al suo funerale, erano presenti migliaia di persone. Quella di Ahmad è una storia simile a quella di molti altri giovani dei campi profughi palestinesi. A differenza di altri, la sua capacità di scampare per molte volte alla morte ne ha fatto un simbolo per i giovani del campo. Per i ragazzi di Balata il punto di riferimento è un ragazzo che, a differenza di altri, è riuscito a sopravvivere soltanto un po’ più a lungo. Fino a 24 anni.
TRE. Sheikh Jarrah
Nel 1956 la famiglia Al-Kurd ricevette dal governo giordano un appezzamento di terreno nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, sul quale costruì la propria casa. Quando nel 1999 nacquero i figli di Nabil, si presentò la necessità di ampliare la casa. Nabil presentò al Comune la domanda di ampliamento, che però venne rifiutata. Non avendo altre possibilità, Nabil decise di costruire comunque una nuova abitazione accanto a quella della madre. Poco tempo dopo la corte decretò illegale la nuova abitazione e mise i sigilli alla casa (mobili inclusi). Nabil, insieme alla moglie ed ai figli ritornò a vivere con la madre, ma non si arrese alla sentenza e decise di ricorrere in appello. Dieci anni dopo, senza fornire spiegazioni, il 3 novembre 2009 l’esercito si presentò a casa di Rifka Al-Kurd , madre di Nabil, per sgomberare anche la sua abitazione. Rifka, che allora aveva 78 anni, venne picchiata ed arrestata.
Il giorno stesso 60 coloni israeliani entrarono nella casa di Nabil, che era rimasta sigillata per 10 anni, e gettarono in strada tutti i mobili. Il 1 dicembre del 2009 occuparono definitivamente la casa. Dal giorno dello sgombero i 12 membri della famiglia vivono in una tenda all’esterno della propria abitazione. Dal 1967, anno di occupazione di Gerusalemme Est, il governo di Israele sfratta le famiglie palestinesi e supporta l’azione dei coloni per cercare di trasformare Sheikh Jarrah in un quartiere ebraico.
QUATTRO. Questione di chimica (Tulkarem)
Faez è un agricoltore che ha sempre vissuto lavorando dei terreni nella zona occidentale di Tulkarem, a ridosso del confine con Israele. A causa della costruzione del Muro gli è stata confiscata buona parte delle terre; unʼaltra porzione gli è invece stata espropriata, per mano dell’esercito israeliano, per permettere la costruzione di unʼindustria chimica israeliana altamente inquinante, che prima della costruzione del Muro era situata in territorio israeliano. Quando il vento soffia da ovest a est (da Israele verso la Palestina), undici mesi lʼanno, i fumi cancerogeni della fabbrica invadono Tulkarem, che oggi è una delle zone a più alta incidenza di cancro di tutta la Palestina; nel mese in cui i venti periodici soffiano da est a ovest (dalla Palestina verso Israele), la fabbrica viene invece chiusa, per evitare che i fumi tossici raggiungano i villaggi in Israele.
CINQUE. La famiglia Assam e lʼarcheologia
Silwan è uno dei quartieri arabi più popolosi di Gerusalemme Est. Uscendo dalla città vecchia attraverso la Porta di Giaffa, ci si trova di fronte al percorso storico-archeologico della “Città di Davide”, che si incunea nel cuore di Silwan. Decine di abitazioni arabe di questo quartiere rischiano la distruzione a causa degli scavi archeologici: secondo gli israeliani, infatti, proprio sotto Silwan sarebbe sorto lʼantico tempio di Re Davide, primo re di Israele secondo l’Antico Testamento. La famiglia Assam, che ci accoglie in quello che resta della propria abitazione, racconta di come dopo lʼinizio dei lavori di scavo vivere a Silwan sia diventato un problema. Una parte della loro abitazione è stata demolita nel 2008 per fare spazio a nuovi scavi archeologici e per permettere la costruzione di un tunnel sotterraneo che colleghi la città vecchia alla Città di Davide.
SEI. Gli ulivi di Hashim
Hebron è una città palestinese di 200.000 abitanti. Nel cuore del suo centro storico vivono 400 coloni israeliani, che vi si sono installati occupando case palestinesi; oggi sono protessi da 4500 soldati israeliani, anch’essi installati in edifici occupati nella città vecchia di Hebron. I coloni e l’esercito israeliano hanno costretto la popolazione araba ad abbandonare le abitazioni e i negozi del centro storico, le cui strade, oggi, sembrano quelle di una città fantasma: pochi negozi rimangono aperti nelle vie che fino a qualche anno fa ospitava un grande mercato.
Hashim è uno dei pochi palestinesi che non hanno voluto abbandonare questa zona, nonostante le continue aggressioni da parte dei coloni israeliani che si sono installati a ridosso della sua abitazione: hanno avvelenato i suoi ulivi secolari, tagliato alla base del tronco le sue viti; per due volte hanno picchiato sua moglie incinta, facendole perdere il bambino; una volta se la sono presi con la nipote di pochi anni, rompendole con una pietra tutti i denti; lui stessi è stato più volte aggredito, riportando contusioni e fratture. Ci si domanda come si possa restare umani oggi a Hebron.
SETTE. Aspettando papà
A Tulkarem, davanti alle macerie di alcune case abbattute per far spazio al Muro, ci viene raccontata la storia di Mariam, una bambina di dodici anni il cui padre era stato arrestato dagli israeliani. Pochi giorni dopo lʼarresto Mariam aveva sentito sua madre parlare col vicino di casa: stava dicendo che di lì a poco sarebbe stato liberato. Il giorno successivo la bambina aveva chiesto ad una sua compagna di scuola di accompagnarla al Muro, per fare una sorpresa al padre che, ingenuamente, si era immaginata che sarebbe tornato quel giorno stesso. Una volta arrivare al Muro, non sapendo dove aspettarlo perché a Tulkarem non ci sono varchi nel Muro, le due bambine si erano messe a camminare lungo il reticolato. Ad un certo punto avevano visto avvicinarsi una jeep dell’esercito israeliano, e, impaurite, avevano cominciato a correre. I soldati non avevano esitato a sparare, colpendo Mariam alla nuca e uccidendola sul colpo. Mariam era morta così, a 12 anni, aspettando suo padre.
OTTO. Otto nel congelatore
Murad, un giovane di Dheheishe, il più grande campo profughi di Betlemme, ci guida allʼinterno del cimitero dei “martiri” di Betlemme: sono chiamati così coloro i quali sono morti per mano dell’esercito israeliano. I disegni in bianco e nero sulle lapidi ritraggono spesso volti di ragazzini: per lo più sono stati uccisi dall’esercito nel corso di manifestazioni contro l’occupazione, colpevoli al massimo di aver lanciato qualche sasso. Chiunque, a Dheheishe, ha un amico o un parente seppellito qui.
Il cimitero è quasi pieno. Tra i pochi spazi vuoti, ci sono quelli di otto tombe allineate, che però sono già state assegnate. Si tratta delle tombe destinate a otto palestinesi arrestati e morti nelle carceri israeliane. Essendo morti prima di aver concluso di scontare la propria condanna, gli israeliani hanno congelato i loro corpi, che verranno restituiti alle famiglie soltanto quando l’intera durata della pena sarà trascorsa.
NOVE. Case di terra
La Valle del Giordano è una delle zone più fertili della Palestina. L’intera area è sotto controllo militare israeliano; moltissime sono le terre che i coloni israeliani hanno sottratto con la forza ai legittimi proprietari palestinesi, e dalla quali provengono la maggior parte dei datteri commercializzati in Europa come “Made in Israel”. Nella valle del Giordano l’esercito israeliano ha anche poteri di amministrazione civile, che utilizza, al fianco di azioni più propriamente militari, per cercare di spingere la popolazione palestinese ad abbandonare la zona. Visitiamo un piccolo villaggio arabo, dove l’esercito ha appena demolito diverse case: la motivazione ufficiale è stata la violazione di un decreto, appena emanato, che vieta, “per motivi militari”, che le case abbiamo il tetto piano in cemento. Tutte le case palestinesi, però, da sempre, sono costruite con un tetto piano in cemento. Una donna del villaggio ci mostra, a fianco delle macerie, una grande quantità di mattoni di terra cruda messi ad essiccare al sole. Per rispondere alle demolizioni israeliane gli abitanti del villaggio si sono organizzati e ricostruiscono le case distrutte utilizzando terra battuta. In questo modo sono in grado di rispondere ad ogni demolizione con la ricostruzione: edificare con mattoni di fango è veloce e, soprattutto, molto economico, e loro hanno fatto di questa pratica la loro forma di resistenza contro l’occupazione. Sono però consapevoli che è solo questione di tempo, e che i bulldozer israeliani ritorneranno.
DIECI. Pausa sigaretta
Girando su se stessi sul tetto della casa di Wajdi, lo sguardo si riempie di tutta la città di Nablus che si srotola attorno. Giugno 2003: l’esercito israeliano entra in città. È esattamente su quel tetto che Wajdi viene colpito da un proiettile che lo ferisce ad entrambe le gambe, mentre, a sera inoltrata, sta prendendosi una pausa dallo studio fumando una sigaretta.
Questo non basta: una volta compresa la gravità delle ferite, il dolore fisico diventa reale e Wajdi si accascia dietro a delle taniche, inseguito dal laser di un cecchino insoddisfatto. Accorre la madre, viene chiamata un’ambulanza: mentre i paramedici iniziano ad occuparsi di lui, giungono sul posto anche dei soldati israeliani che lo spogliano e picchiano ferocemente, accanendosi sulle ferite alle gambe mentre gli puntano armi alla testa. Adducendo come motivazione l’esigenza di un interrogatorio, impediscono all’ambulanza di ripartire. Wajdi raggiungerà l’ospedale dopo ore, ormai privo di coscienza, ,non prima di aver aggirato troppi check point.
Vietate le pause – sigaretta a Nablus.
UNDICI. L’antenna di Migron
Dopo gli accordi di Oslo del 1993, per i coloni israeliani è diventato più complicato ottenere i permessi per costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania (che, secondo il diritto internazionale, sono illegali);tuttavia non li ha fermati, ma li ha soltanto spronati a trovare sempre nuovi escamotages. E’ il caso, ad esempio, dell’insediamento di Migron. Nel 1999 alcuni coloni si lamentarono della mancanza di copertura per i cellulari in un tratto della strada, a esclusivo uso israeliano, che collega Gerusalemme alle colonie del Nord della Cisgiordania. La costruzione di un’ antenna sulla cima di una collina nei pressi del tratto non coperto venne considerata una questione di sicurezza, e ciò permise di espropriare le terre della collina appartenenti ad alcuni palestinesi. A guardia dell’antenna fu messo un custode con un container; quando questo fu raggiunto da moglie e figli il sito fu collegato alla rete elettrica e a quella idrica. Nel 2002 a loro si aggiunsero altre cinque famiglie, e così nacque formalmente inizio l’avamposto di Migron. Da quel momento il Governo israeliano ha avviato la costruzione di servizi pubblici e, con donazioni provenienti dall’estero, di una sinagoga. Nel 2006 l’insediamento contava circa 150 persone; oggi continua a crescere a ritmo costante.